Michele Bordin


Amate spoglie

Il tema del “residuo”, di ciò che rimane dopo la vita organica, conti­nuando a possedere una sua misteriosa vitalità, o di ciò che potrebbe averne - insospettabilmente - una, è tra i pochi di lunga e ramificata percorrenza all'interno della cultura novecentesca. Nell'impossibilità di darne una seppur minima rassegna, sarà appena il caso di citare, tra le figurative, esperienze come Dada, la Pop Art, Fluxus o il più recente Inespressionismo, e singoli arti­sti come Ensor, Bacon, Sutherland, Vespignani, Zigaina, Ferroni, Balena ecc.; in lette­ratura, i nomi di Eliot, Bernhard, Cioran, Montale, Zanzotto e via dicendo. In tutti costoro la “residualità” assurge a illustrazione diretta o metaforica della condizione umana, di cui si percepisce acutamente la precarietà in rap­porto all'ineluttabile destino di corruzione e scomparsa della materia, sia essa - per restare in campo figurativo - il corpo degli orrendi insetti di Zigaina come quello delle figure “dissezionate” di Bacon o accatastate - nelle tragiche pile dei campi di sterminio - dei “non ultimi” ossessivamente dipinti da Music.

            Anche nelle opere di Renato Tonietto - sensibile e appartato artista ve­neto - si ritrova una stessa attrazione per il già vivo, indagato sotto forma di spo­glie di topi o uccelli ma anche di più allusive “tracce” nell'“aridità”, che su­perano e trascendono il dato naturalistico per approdare a una dimensione quasi astratta ed emanante una fortissima tensione simbolica. Al raggiungimento di un simile risultato concorre in modo determinante la tecnica prescelta - l'incisione -, della quale Tonietto sembra conoscere tutti i risvolti e le ine­dite potenzialità. In contemporanea con tentativi dotati comunque di un'implicita affinità (“Frammenti”, “Fiori recisi”, “Consumazioni” tra il 1994 e il '95), a partire dal 1993 egli dà avvio a un ciclo intitolato appunto “Traccia arida” (e giunto fino ad ora a sette pezzi), che costituisce la prima, matura sintesi di un itinerario certo ricco di ulteriori implicazioni. Colpisce, in questo ciclo, il dominio della tecnica - come si è già accennato -, anche nel tentativo di andare oltre i limiti da essa consentiti, lavorando per esempio la lastra in modo da far emergere dei bianchi vivaci come fiammelle o da rendere “materici” i neri, tanto da giungere in alcuni casi a effetti decisamente “pittorici”. Il reticolo di segni che fonda l'immagine viene dunque agitato e finanche sconvolto dalla presenza di spazi fisicamente ma non semanticamente “vuoti” (i bianchi) o “pieni” (i neri), i quali sortiscono una curiosa inver­sione di rapporti: dirompenti e dinamizzanti i primi, ordinatori e statici i se­condi. Ne consegue che i presunti protagonisti della figurazione - i predi­letti rami e fiori secchi - si trovano a dover cedere parte del loro ruolo a una più serrata dialettica di masse, di luce e ombra, nelle cui contrapposizioni l'elemento realistico finisce per mostrare tutta la pretestuosità della sua pre­senza. Persino in un dominio di per sè conservativo e naturalistico come l'incisione è allora possibile verificare la penetrazione di esperienze figura­tive di altro genere, specie quelle pittoriche dell'astrattismo razionalizzante e rivolto all'indagine segnica (Capogrossi, Tancredi, Accardi, Burri). A Burri, in particolare, sembrano ricondurre con più insistenza gli affioramenti geome­trizzanti di un “colore” nell'altro (ma si ricorderà che proprio al bianco e al nero il maestro umbro ha sempre riservato grandissima attenzione, sia combinan­doli che trattandoli separatamente) così come il gusto per la giustapposizione dei piani, riscontrabile nell'unione delle due parti di una lastra spezzata a comporre un'unica incisione.

            Ciò che si offre al nostro sguardo nasce perciò da un “tormento” della ma­teria da intendersi sia come attribuzione alla stessa di un “sentire” umano, sia come modo di agire il supporto. Va da sè che l'atteggiamento dell'artista è pie­namente simpatetico a tale “sofferenza” pur senza aver nulla di irrazionalistico e impetuoso; nè, se così fosse, si spiegherebbe l'amore per una tecnica tanto costrittiva e riflessiva. Ma è anche possibile che proprio in virtù della pa­zienza di esecuzione e della premeditazione senza scampo dell'opera cui obbliga l'incisione, il pensiero della finitezza degli esseri, dell'azione del tempo che riduce vegetali e animali a spoglie, si plachi e quasi si cristallizzi senza la­sciare residui. Da questo punto di vista, le incisioni di Tonietto si rivelereb­bero altrettanti esercizi di superamento di un segreto malessere, una sorta di psico-diario attraverso l'“aridità”, la secchezza dell'io, scandito tuttavia a larghi intervalli di tempo da immagini appena variate nella disposizione ma co­stanti nel significato. Il movimento creato dalla rete dei segni in rapporto alle campiture “cromatiche” e agli effetti tattili allude del resto alla scrit­tura, al rincorrersi delle parole nella pagina, alla registrazione dei discorsi, propri ed altrui. L'artista-scrittore trasferisce forse nel tempo compulsivo dell'incisione una quantità di “informazioni” che potrebbero essere parimenti deversate in segni scrittori, su pagine e pagine di un'incessante autoterapia in absentia moti. Ma la “cura” per i “segni” denota in ultima analisi l'abitudine ad interrogarsi e a fare, di quei segni, gli strumenti stessi della cura. Nei residui così strenuamente raffigurati l'artista viene perciò a rappresentare se stesso nel tempo, secondo un rituale di abbandono e recupero di sé sempre rinno­vatesi attraverso la sequenza delle date. E' un ciclo di morte e rinascita che ha alla base un'accettazione del nostro essere effimero di specie quasi orien­tale, laddove non si dà libero corso alle emozioni ma le si rivive con la piena consapevolezza della fragilità dell'essere. In questa percezione adulta del mondo, in questo solitario vagabondaggio nel deserto lasciandosi dietro soltanto una sequenza di tracce sta la struggente poesia delle “meditazioni” di Renato Tonietto.

 

Castelfranco Veneto, settembre 1997